quarta-feira, 26 de dezembro de 2012

Il peccato originale secondo il card. Ravasi - di P. Giovanni Cavalcoli, OP

In CR

Il Card. Gianfranco Ravasi è oggi uno dei membri più in vista del Sacro Collegio, uomo di vasta cultura, brillante scrittore ed oratore, particolarmente impegnato, come sappiamo, nel dialogo con non-cattolici, non-cristiani e non credenti, sensibile ai temi di fondo della ragione e della fede, temperamento di poeta che però non dimentica le esigenze del rigore scientifico che si addice alla teologia.

Di recente ha pubblicato per i tipi della Mondadori un libro dal titolo Guida ai naviganti. Le risposte della fede: una guida, scritta con stile sciolto e avvincente, per affrontare con serietà le questioni più profonde dell’esistenza e della vita. Viene un po’ in mente la famosa Guida dei perplessi del grande filosofo ebreo medioevale Mosè Maimonide, ammirato da S. Tommaso d’Aquino.

Non intendo qui fare un recensione del libro. Voglio solo fermarmi su di un punto dottrinale di capitale importanza trattato dall’illustre e dinamico Porporato: la questione del racconto biblico della creazione dell’uomo e del peccato originale.

Devo dire con tutta franchezza che grande è stata la mia sorpresa, sia detto ciò con tutto il rispetto dovuto a un Principe della Chiesa, quando ho letto, a proposito di questo famosissimo racconto, che esso “è un’apparente narrazione storica, con eventi e una trama, che hanno però un valore simbolico, filosofico-teologico, quindi ‘sapienziale’ ed esistenziale” (p.45).

Si tratterebbe, come dice anche Karl Rahner, di un’“eziologia metastorica”, ossia di un genere letterario antico, che per mezzo del racconto di un mito riferito al passato, intende istruirci su di una condizione dell’uomo che riguarda il presente, anzi una condizione “metastorica”, quindi qualcosa che riguarda l’uomo come tale, indipendentemente dai tempi e dal corso della storia. Insomma, un modo di far filosofia ricorrendo alla narrazione, anziché a concetti speculativi.

Lo scritto del Cardinale prosegue poi sullo stesso tono: “lo scopo” (del racconto biblico)  “non è tanto quello di spiegare cosa sia successo alle origini, ma di individuare chi è l’uomo nel contesto della creazione: è, allora, una ‘metastoria’, ossia è il filo costante sotteso a eventi, tempi e vicende storiche umane. Si risale all’archetipo … non per narrare  cosa sia accaduto nel processo di ominizzazione in senso scientifico o per scoprire gli atti di un singolo individuo primordiale, ma per identificare nella sua radice iniziale lo statuto permanente di ogni creatura umana” (ibid.).

Sono rimasto molto sorpreso davanti a simili affermazioni, anche se so che oggi sono condivise da molti. Ma, come sappiamo, la verità di fede non dipende dal consenso della maggioranza, ma dalla retta interpretazione della Parola di Dio che ci è garantita dal Magistero della Chiesa.

Che il racconto genesiaco faccia riferimento a una condizione dell’uomo che copre tutto il corso della storia, non c’è alcun dubbio, come pure non c’è dubbio che alcuni elementi sono evidentemente ingenuamente mitologici, come c’è da aspettarsi da una cultura primitiva come quella dell’agiografo. Ma la Chiesa ha sempre insegnato che in questa congerie di fatti, di immagini, di quadri e di elementi occorre saper discernere con somma saggezza, sotto la guida dello stesso Magistero, ciò che è mitico da ciò che è storico, ciò che è inventato da ciò che è realmente accaduto, ciò che è simbolico da ciò che va preso alla lettera.

Ora non è difficile venire a sapere, per chi voglia informarsi, che il suddetto racconto, nella sua sostanza, non è per nulla un mito inventato per spiegare una situazione attuale, benchè di fatto il racconto spieghi ottimamente tale situazione; ma, come dice lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, erede di una millenaria tradizione dogmatica, “il racconto della caduta (Gn 3) … espone un avvenimento primordiale, un fatto che è accaduto all’inizio della storia dell’uomo” (n.390) (in corsivo nel testo, quasi a sottolineare l’importanza dell’affermazione), ossia un fatto che è oggetto della divina Rivelazione, quindi, come tale, verità di fede indispensabile per la salvezza.

Inoltre il Catechismo, a più riprese, nei parr. 6 e 7 del cap. I, in perfetta linea con la Tradizione e la Scrittura, fonti della Rivelazione che ci è mediata dalla Chiesa, soprattutto a partire dal Concilio di Trento sino allo stesso Concilio Vaticano II, ricorda come l’umanità ha avuto inizio da una coppia, – Pio XII nella Humani Generis respinge il poligenismo – la quale, caduta nel peccato per istigazione del demonio, ha trasmesso questa colpa – la colpa originale – a tutta l’umanità per via di generazione, colpa dalla quale siamo liberati dalla grazia del Battesimo.

Dunque netta distinzione fra il peccato personale – il “peccato” nel senso corrente della parola -, la cui colpa resta nel colpevole, e il peccato originale, la cui colpa è trasmessa ai discendenti. Il peccato dei progenitori è stato un peccato personale, ma nel contempo ha avuto il carattere di una colpa che si è trasmessa ai discendenti: peccato originale (originante).

Indubbiamente la Bibbia non è un trattato di paleoantropologia, per cui da essa non possiamo attenderci alcuna informazione su quella che è stata l’evoluzione dell’uomo dalle origini ad oggi e neppure c’è l’ombra di una derivazione dell’uomo dalla scimmia. Anzi, il quadro della coppia edenica, nobilissima, sapientissima, bellissima, sanissima, immortale, perfetta nella virtù, signora del creato, felice, in comunione con Dio, ci fa pensare che fosse stata dotata da Dio di un corpo nobilissimo, ben superiore a quello della scimmia, benchè Pio XII nella medesima Humani Generis non escluda l’ipotesi che quanto al corpo i progenitori possano essere provenuti da un vivente precedente inferiore (ex iam exsistenti ac viventi materia, Denz.3896), salva restando la verità di fede che comunque l’anima spirituale dev’essere considerata come immediatamente creata da Dio, con buona pace di Vito Mancuso.

Invece nell’interpretazione del Card.Ravasi il peccato sembra essere spiegato semplicemente col libero arbitrio dell’uomo capace di operare il bene come il male, ma sembra totalmente assente la vera condizione di miseria nella quale ognuno viene al mondo, ossia quello stato di colpa, che si chiama colpa originale o peccato originale originato, derivante per generazione dai nostri progenitori.

Nella visione del Cardinale resta quindi inspiegata l’esistenza delle pene della vita presente nelle loro molteplici e tragiche forme, e l’innata, a volte irresistibile, tendenza al peccato esistente in ognuno di noi, anche i più buoni, tendenza dalla quale, come insegna la nostra fede, sono stati esentati solo Gesù Cristo e la Beata Vergine Maria, il primo in quanto Figlio di Dio, la seconda in quanto preservata, come è ben noto, per specialissimo privilegio, dalla macchia della colpa originale. Se tutti nasciamo buoni, dove va a finire il privilegio di Cristo e della Madonna? Se tutti siamo originariamente, necessariamente, sempre e inevitabilmente in grazia, dove va a finire il privilegio di Maria? E che ne è del peccato come assenza o perdita della grazia?

Invece la Scrittura è chiarissima nel raccontare come il peccato dei progenitori li ha esclusi dal paradiso terrestre privandoli di quei preziosi beni che possedevano nello stato d’innocenza e nel farci comprendere come la serie infinita di pene che da allora affligge l’umanità sia causata, nella sua prima radice, dall’avverarsi di quel castigo che Dio aveva minacciato ai progenitori e alla loro progenie nel caso avessero disobbedito al comando divino di non “mangiare dell’albero del bene e del male”.

E’ chiaro che tantissimi mali sono poi causati dai peccati personali dei singoli, eventualmente ancora sotto l’istigazione di Satana, ma anche questi peccati sono resi possibili dal fatto storico del peccato originale dei nostri progenitori all’origine della storia dell’uomo. “La morte – come dice S.Paolo – è entrata nel mondo a causa del peccato”.

Nella concezione di Ravasi sembra invece che ognuno di noi sia creato naturalmente buono ed innocente, come nella concezione di Jean-Jacques Rousseau, e che possa corrompersi soltanto per una sua volontaria malizia o per l’influsso negativo della società. Ma allora a questo punto ci si chiede: a che serve la grazia cristiana della remissione dei peccati, a che serve il Battesimo, se ognuno di noi ha in sé la forza e la possibilità di osservare la legge divina e di conseguire la virtù, purchè lo voglia?

O forse che ognuno possiede la grazia sin dalla nascita senza mai perderla, come crede Rahner? O forse la grazia è Dio, sicchè l’uomo in grazia in fin dei conti è Dio? Oppure l’uomo, essere sostanzialmente divino, come insegna la filosofia indiana, prende coscienza di tale sua divinità al termine di un opportuno cammino sapienziale di autopurificazione (yoga)? Dove egli allora si distingue da Gesù Cristo? Forse che egli diventa identico a Cristo, come pensava appunto Meister Eckhart che concepiva così la vita di grazia?

Bisogna dire con tutta franchezza che questa concezione è in contrasto con la visione cristiana e combacia invece con le concezioni razionalistiche o naturalistiche o gnostiche, come per esempio la massoneria, il laicismo, il liberalismo, l’idealismo, l’esoterismo, il marxismo o il positivismo, dove il problema del male non è risolto per un intervento sanante della grazia di un Dio trascendente, ma per il fatto che l’uomo o è un essere originariamente divino o per il semplice moto dialettico della ragione o per la forza della volontà o le risorse della scienza, della tecnica e della politica.

Ma se l’uomo nasce già buono e volto verso Dio e il peccato è un semplice incidente di percorso o è sempre e comunque perdonato o può convivere benissimo con la grazia o è il polo dialettico della dinamica della storia, a che la predicazione del Vangelo? A che l’esortazione alla penitenza e alla conversione? Che senso ha la Redenzione di Cristo? E la preghiera? E la Chiesa? E i sacramenti? E come e perché raggiungere la resurrezione e la vita eterna? Che cosa diventa la santità? Non è sufficiente per ogni evenienza il “dialogo” e la buona volontà?

Da qui vediamo che la negazione o la deformazione o la decurtazione della dottrina cattolica della creazione della coppia primitiva e la dottrina del peccato originale, crea un processo a catena di negazioni, per le quali alla fine del cristianesimo non resta più nulla se non un’illusoria autodivinizzazione dell’uomo o un vago umanesimo, utopistico, relativista ed incapace di condurre gli uomini alla giustizia ed alla felicità.